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Scuola. Insegnante unico e dintorni

Rocca, n. 11, 1 giugno 2009, pag. 29

Schizofrenia di un sistema. Potrebbe essere il titolo di un thriller. Invece, purtroppo, è la dura realtà di scelte del governo che a fronte di una società che diventa sempre più complessa risponde a tale complessità semplificando la scuola, il nucleo dal quale dovrebbero uscire persone con strumenti conoscitivi tali da affrontare proprio il mondo in continua evoluzione. La proposta della riforma Gelmini che riporterà il maestro unico alle elementari va proprio nella direzione della semplificazione. La multidisciplinarietà sarà sostituita con il/la maestro/a tuttologo/a. Anni di formazione specialistica del corpo docente, che hanno portato la nostra scuola ai più alti livelli in Europa riconosciuta da organismi internazionali, in un colpo solo saranno buttati... dalla finestra. Con buona pace della valorizzazione delle risorse umane e di una vera formazione dei cittadini del futuro. Come si fa, allora, a non pensare che questo disegno contenga in sé qualcosa di molto preoccupante, nella misura in cui incide sulla possibilità di acquisizione di strumenti di valutazione autonoma e critica della realtà da parte di quelli che saranno i cittadini adulti del futuro? E come si fa a non pensare che questo disegno sia funzionale ad un neo autoritarismo? Come si fa a non dubitare che mettere le mani alla più importante agenzia formativa faccia il paio con la tendenza a controllare, da parte di un solo uomo, tutti i mezzi di informazione, televisione in primo luogo, altra principale agenzia formativa delle menti?
Dunque, non si tratta solo di discutere se una riforma della scuola sia buona o cattiva in sé, ma se sia funzionale o meno ad un disegno di governo della società e a quale disegno in particolare. É il solito discorso del rapporto tra struttura e sovrastruttura, ancora attuale. E allora vediamo concretamente come inciderà questa riforma sul corpo della scuola.
“Se vogliono un insegnante che si limiti all’ABC senza nessun approfondimento in nessun ambito disciplinare i risultati li vedremo nelle generazioni future. Un solo insegnante, per quanto bravo, non può sapere tutto di tutto”. Non usa mezzi termini Marzia Marchi, maestra elementare di ruolo di lungo corso in una scuola di un quartiere con problematiche sociali che hanno riflessi, come è inevitabile, anche in ambito scolastico. Allora vediamo cosa significherà dal prossimo anno insegnare in una realtà come questa.
“Se opera in un contesto di forte disagio sociale l’insegnante si trova a fronteggiare non solo 25 bambini con problemi diversi, ma altrettante famiglie. A questo si aggiunga che spesso ci si deve interfacciare con psicologi, assistenti sociali, logopedisti, a volte anche forze dell’ordine. Tutto ciò comporta un aggravio di tempi che inevitabilmente sono sottratti al tempo scuola. Allora questi tempi dovrebbero essere previsti a livello contrattuale”. Senza contare che la percezione del disagio di un bambino è affidata ad insegnanti che devono porsi in una relazione di ascolto emotivo, se non si vuole che l’insegnamento, almeno alle primarie, sia limitato alla trasmissione nozionistica delle conoscenze. “Se sei un insegnante unico sei anche l’unico testimone del disagio del bambino, con tutti i limiti che ciò comporta. Non sei infallibile e quindi il disagio puoi vederlo come puoi non vederlo o addirittura, dall’altro lato, esageralo. In questi casi con chi ti confronti? Si badi, la segnalazione dell’insegnate può essere determinante per la salute psichica del bambino. Quando due o più maestre/i si alternano nella stessa classe in momenti diversi della giornata e nonostante ciò vedono gli stessi disagi, vuol dire che l’intervento di aiuto che si richiederà sarà più preciso”.
Di fronte a questi discorsi non si può far a meno di pensare all’estrema attualità delle riflessioni di don Milani e alla sua scuola di Barbiana, alle lotte per non lasciare indietro nessuno nel processo formativo. Il maestro unico che dovrà portare a termine un programma ministeriale rischia di dover sacrificare proprio le fasce più deboli, con il risultato che per questi ultimi non solo la qualità dell’apprendimento sarà scadente, ma che aumenteranno gli abbandoni scolastici successivi all’obbligo. Una negazione, di fatto, del diritto allo studio. Evidentemente questo sistema ha bisogno di un “esercito di riserva”, o di masse manipolabili.Molti dei nostri lettori hanno avuto il/la maestro/a unico/a alle elementari, ma quanti dei nostri compagni si sono persi per strada? Qualcuno ricorda un uscita con il maestro unico per andare a visitare un museo della propria città, per avere una relazione conoscitiva con il territorio che si abita?
“Per portare fuori i bambini, per legge, il rapporto deve essere un insegnante ogni 15. Se siamo in due possiamo uscire per attività integrative. Inoltre, nelle ore di copresenza nelle classi a tempo pieno di 40 ore settimanali, che quando va bene, e non ci sono assenze da coprire, al massimo sono quattro a settimana, si possono organizzare dei gruppi di lavoro calibrati sulle attitudini dei bambini. Come farà l’insegnante unico a garantire tutto ciò?”. Semplice: nessuna uscita da scuola, nessuna attività integrativa.
In realtà le 24 ore minime settimanali previste per legge sono puramente teoriche. Sono rarissime le famiglie che hanno scelto l’orario minimo garantito. Per l’organizzazione della società odierna in cui bisogna conciliare i tempi di lavoro, spesso di entrambi i genitori, con gli orari dei figli, le famiglie, nell’anno scolastico che sta per chiudersi, si sono orientate sui moduli di 27-30 ore settimanali o sul tempo pieno di 40, lì dove c’era la disponibilità di insegnanti. “Alla fine, l’insegnante unico è una fandonia. Infatti, nel caso in cui tutte le famiglie si orientino sul modulo minimo da 27 ore, il contratto di lavoro degli insegnanti prevede 22 ore settimanali di insegnamento e due ore di programmazione didattica. Chi coprirà le cinque ore restanti? Anche considerando due ore di religione ne restano fuori tre. Senza considerare che ci sono bambini di altre religioni e coloro che non si avvalgono di quell’insegnamento. Chi garantirà l’insegnamento alternativo a questi bambini?”, dice ancora Marchi.
Altra implicazione della cosiddetta riforma Gelmini sono le ripercussioni sull’esercito dei precari della scuola, soprattutto quelli non abilitati. Molti di loro con il prossimo anno scolastico saranno costretti a cercarsi un altro lavoro, a cambiare mestiere. Chi invece stava per diventare di ruolo dovrà aspettare ancora. É il caso di Isabella, giovane insegnante precaria di 29 anni con un’esperienza ormai quasi decennale. Per lei la riforma è come il gioco dell’oca: dovrà stare ferma alcuni giri. “L’anno prossimo sarei potuta passare di ruolo avendo già l’abilitazione, ma ora questo non sarà possibile. Dopo nove anni uno si aspetta anche di stabilizzare la propria carriera. Ci speravo tanto perché vorrei metter su famiglia, avere dei figli, fare dei progetti e ora è di nuovo tutto incerto. Non ho paura di restare senza lavoro, ma sarò ancora precaria chissà per quanto. Senza contare il fatto che dovrò lasciare i miei bambini. Il peggio sarà per loro che si vedranno sballottati da un sistema di insegnamento ad un altro, mentre i bambini hanno bisogno di stabilità, di punti fermi”.
Non va sottaciuto il fatto che anche tra il corpo docente c’è chi approva la riforma. In genere si tratta di insegnanti cresciuti con il vecchio modello o poco propensi al confronto con i colleghi sulle scelte didattiche e sui metodi pedagogici. Tanto più se la/il collega è molto giovane. Così all’inizio della carriera è stato per Isabella. “Quando sei giovane i rapporti con i colleghi più anziani sono problematici, sei vista come quella che deve ancora imparare e quindi il tuo punto di vista è poco considerato. Arrivano anche a dirti cosa devi fare”.
Un aspetto della riforma Gelmini che, invece, incontra più consensi trasversali è la parte che riguarda la creazione degli istituti comprensivi: scuole in cui sono accorpati l’ultimo anno della materna fino all’ultimo anno delle medie inferiori in un’unica direzione, un unico collegio dei docenti e un unico consiglio d’istituto. “Non ho dubbi: se dovessi scegliere tra la scuola com’è organizzata ora e gli istituti comprensivi sceglierei questi ultimi. Così come tra l’insegnante unico alle elementari e il team attuale scelgo il team”. Parola del professor Carlo Gennari, da vent’anni dirigente scolastico, preside di un istituto comprensivo che su questo ha anticipato la riforma Gelmini di ben nove anni. E in questi nove anni ha potuto testare dal punto di vista pedagogico e amministrativo la macchina di un istituto comprensivo come il suo con 780 studenti. “Il vantaggio degli istituti comprensivi - spiega il prof. Gennari – sta nella continuità della programmazione didattica attraverso l’organizzazione di un curriculum di studi verticale, dall’infanzia alle medie. Il corpo docente conosce i ragazzi per i quali il passaggio da un livello all’altro avviene in modo più morbido. In questo passaggio non ci sono sorprese né salti nel vuoto, né per i ragazzi, per i quali è stato preparato dal collegio unico dei docenti, né per i docenti stessi che di quei ragazzi sanno ormai vita morte e miracoli”. Insomma, gli studenti vengono presi dalla culla e portati per mano sulla soglia delle scuole medie secondarie.
Sono tutte rose e fiori gli istituti comprensivi? In gran parte sì, come spiega sempre il prof. Gennari. “Dal punto di vista dell’utenza il passaggio da un livello all’altro dell’istruzione comporta uno snellimento della burocrazia. Ma l’aspetto più importante è che si realizzano davvero le pari opportunità nell’apprendimento grazie alla maxi progettazione didattica che tiene conto, in un corpo unico, dei tre livelli della crescita dei ragazzi. Per non parlare delle attività didattiche comuni tra i vari livelli che consente loro di confrontarsi con persone di età diverse. Questo facilita la convivenza e la conoscenza dell’altro”. Insomma, una grande famiglia allargata in un contesto sociale in cui invece i figli unici e l’atomizzazione delle famiglie sono la norma. “Voglio credere che gli istituti comprensivi siano stati pensati proprio per educare alla convivenza civile, più che al risparmio economico”.
Non vanno sottaciute però le diffidenze iniziali di una parte del corpo docente, a tutti i livelli. “All’inizio i professori delle medie avevano qualche resistenza a rapportarsi con i maestri delle elementari. I maestri, a loro volta, si sentivano giudicati e consideravano i professori poco attenti alla sfera emotiva dei ragazzi. Col tempo anche per gli insegnanti è stata una scuola di convivenza”.
Se dal punto di vista pedagogico gli istituti comprensivi sono l’ottimo, per l’aspetto economico, accennato poco sopra dal prof. Gennari, le rose cominciano a mostrare le prime spine. “Dal punto di vista amministrativo tutto si complica. C’è bisogno di un adeguato numero di personale e di risorse economiche sufficienti ad una programmazione di qualità. Inoltre, con la scusa di creare la scuola dell’autonomia in realtà si creano le condizioni storico sociali per fare delle differenziazioni tra gli istituti. Mi spiego. Nei contesti territoriali ricchi dal punto di vista imprenditoriale la scuola può contare anche sulla contribuzione delle imprese, ma dove il tessuto economico è più povero diventa un problema. Faccio un esempio”, chiarisce Gennari. “A parità di personale docente in una scuola con risorse economiche adeguate si può fare una progettazione didattica di qualità dotando la scuola di strumenti tecnologici, ad esempio. Ad una ricca progettualità corrisponde così una scuola di alta categoria. Viceversa a risorse scarse, pur con la stessa qualità del corpo docente, corrisponde una progettazione didattica più modesta”.
Insomma, tra insegnate unico e autonomia scolastica chi ci rimette sono sempre i più deboli.
Giuseppe Fornaro

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