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Visualizzazione dei post da 2017

L'Italia che va a rotoli

L'Italia che va a rotoli è un paese in cui il senso del dovere di ciascuno e della tutela del bene comune è ridotto ai minimi termini. Controllori che sui treni non controllano non solo i biglietti, ma che passano oltre  senza fare una piega  se un ragazzotto mette le scarpe sul sedile difronte; vigili urbani che si girano dall'altra parte passando oltre un'auto parcheggiata in doppia fila; treni che fanno viaggiare i pendolari in condizioni disumane; cittadini che insozzano strade e giardini e che non si curano di pulire il marciapiedi davanti la soglia della propria casa perché è il Comune che se ne deve occupare. Tranne poi lamentarsi della mancanza di regole e invocare il pugno duro, ma sempre contro gli altri. Non cito nemmeno il caso dei piromani perché lì il senso civico, ovviamente, non c'entra nulla, nel senso che a muovere la mano sono interessi criminali precisi che col civismo c'entrano come i cavoli a merenda. Ho fatto un viaggio di  cinque ore,

Perché Totti ha commosso

La lettera di addio al calcio giocato letta ieri in uno stadio gremito dal capitano della Roma, Francesco Totti, ha travalicato i confini non solo dell'Olimpico, ma del paese, ha coinvolto anche chi, come me, ha un approccio laico al calcio non essendo un tifoso, ha conquistato le prime pagine dei più importanti quotidiani del mondo. Un fenomeno che non è solo sportivo, ma sociologico che merita una riflessione. Totti ha commosso. Dentro e fuori lo stadio. E questo è un fatto. Ha commosso non perché sia stato la bandiera di una squadra di calcio, perché allora l'emozione avrebbe coinvolto solo i tifosi romani, ma perché, dal mio punto di vista, in un mondo di precarietà, di incertezza, di instabilità, di infedeltà, del primato dell'economia sui sentimenti di appartenenza, Totti ha rappresentato l'esatto contrario per un quarto di secolo. E' rimasto fedele ad una maglia, ha rifiutato ingaggi allettanti, ha scelto di appartenere alla sua Roma, alla sua città. Anc

Magistrati senza prove che accusano le Ong

Continua la campagna diffamatoria di alcune procure nei confronti delle Ong impegnate nel salvataggio in mare di migranti. Ha cominciato il procuratore di Catania Zuccaro sparando nel mucchio delle Ong pur precisando di non avere prove, al pari di un avventore  qualsiasi  di bar dello sport. Ora è la volta del pm di Trapani Ambrogio Cartosio. Quest'ultimo, però, aggiusta il tiro. Dice che non sono le Ong in quanto tali a fare da taxi dei migranti quasi alla partenza, come aveva detto il collega catanese, ma sono solo alcune persone delle stesse associazioni ad essere informate prima della partenza dei barconi. E fin qui non si intravvede l'ombra di un reato. Infatti, in primo luogo, Cartosio non dice chi contatta chi dalle sponde della Libia le navi al largo. Non precisa scenari e ruoli. Fino a prova contraria sulle sponde libiche potrebbero esserci altri operatori umanitari che sì avvertono le navi, ma proprio per lo stesso fine umanitario, affinché i barconi non vadano a

Alitalia non è strategica per il paese

Non credo ci siano i presupposti per una nazionalizzazione di Alitalia. Le compagnie aeree non sono più strategiche per un paese con l'apertura della concorrenza. Lo sono le infrastrutture, gli aeroporti (non certo i singoli vettori), la rete ferroviaria, l'intermodalità treno-nave per le merci, e quindi i porti, le autostrade, e ora, sempre più, le dorsali telematiche, la fibra ottica, l'industria e la ricerca informatica, l'hi-tech, l'industria metallurgica. Non conta più chi trasporta, ma chi gestisce la logistica. Questi, sono convinto, siano sempre più gli asset strategici per la competitività di un paese, non una singola compagnia aerea in un'era in cui l'offerta di trasporto è cresciuta esponenzialmente con compagnie di volo affidabili a costi di molto più concorrenziali rispetto ad Alitalia, anche dal punto di vista dell'offerta qualitativa. Da anni Alitalia non era più competitiva, proprio per i costi che era costretta a sostenere per una

I fatti di Parigi simbolo di un'Europa malata

Perché proprio e ancora Parigi? La risposta che mi viene da dare è perché Parigi è l'origine e il centro dei valori della civiltà occidentale: libertà, uguaglianza, fraternità. Valori conquistati col sangue delle teste coronate decapitate in piazza. Oggi, a differenza di allora, altro sangue, questa volta innocente, viene versato da chi quei valori sente siano stati traditi, proprio a partire da se stesso. Sente che la libertà gli è negata per assenza di lavoro; sente di non essere uguale al suo connazionale con la pelle bianca; sente che la diffidenza nei suoi confronti aumenta, il contrario della fratellanza. Sente. E' un sentire, una percezione che però origina da fatti oggettivi, da un sistema di inclusione e di welfare che ha ceduto il passo alle regole delle compatibilità economiche imposte dalle banche agli Stati, che ha ceduto il passo alla finanza prima che alle persone. E' dunque dentro noi stessi, di noi europei, che va cercato l'origine del male di vivere

Parigi: e se l'Isis non centrasse nulla?

Parigi. Ancora Parigi. E ancora un attentatore immigrato di seconda generazione, cioè nato e cresciuto in Europa. Al punto che diventa sempre più forte il dubbio che il terrorismo abbia origini e cause interne: la crisi economica, l'emarginazione delle periferie, la disoccupazione, la frustrazione dei giovani che non riescono a trovare una loro collocazione sociale e la conseguente delusione per le promesse di riscatto sociale tradite. L'Isis rivendica questi attentati per pura propaganda e gli esecutori materiali si servono dei riferimenti dell'integralismo islamico per darsi una veste identitaria. Ma non necessariamente l'Isis è il mandante. A meno che non si voglia a tutti i costi trovare un capro espiatorio esterno per i mali di una società che sono tutti interni. Finché non si prende atto che all'origine del terrorismo su suolo europeo c'è il fallimento delle politiche di integrazione, non si metteranno in campo le adeguate contromisure di contrasto. Amm

Tempo di primarie

E' tempo di primarie. Non è la prima volta che il Pd si affida a questo strumento, che portò Renzi la prima volta alla segreteria, per scegliere il proprio segretario. Eppure non mi capacito all'idea che chiunque possa partecipare al voto, iscritto o no al partito. Purché, si dice, sia un elettore di centrosinistra. Questo perché il regolamento del Pd prevede che il segretario sia anche il candidato premier e per questo motivo tutti gli elettori hanno diritto di sceglierlo. Una forzatura di cui è stato vittima lo stesso Renzi che nonostante ciò ci riprova con le stesse regole.  Non mi capacito, pur non essendo io iscritto a quel partito. Vorrei poter scegliere il candidato premier, ma allo stesso tempo ritengo di non avere il diritto di scegliere il segretario di un partito se non ne sono iscritto. Perché, confesso, personalmente mi provoca un certo disagio. Forse solo perché sono ancora legato all'idea Novecentesca della forma partito. Lo ammetto.  Ma mi chiedo come