La lettera di addio al calcio giocato letta ieri in uno stadio gremito dal capitano della Roma, Francesco Totti, ha travalicato i confini non solo dell'Olimpico, ma del paese, ha coinvolto anche chi, come me, ha un approccio laico al calcio non essendo un tifoso, ha conquistato le prime pagine dei più importanti quotidiani del mondo. Un fenomeno che non è solo sportivo, ma sociologico che merita una riflessione.
Totti ha commosso. Dentro e fuori lo stadio. E questo è un fatto. Ha commosso non perché sia stato la bandiera di una squadra di calcio, perché allora l'emozione avrebbe coinvolto solo i tifosi romani, ma perché, dal mio punto di vista, in un mondo di precarietà, di incertezza, di instabilità, di infedeltà, del primato dell'economia sui sentimenti di appartenenza, Totti ha rappresentato l'esatto contrario per un quarto di secolo. E' rimasto fedele ad una maglia, ha rifiutato ingaggi allettanti, ha scelto di appartenere alla sua Roma, alla sua città. Anche quando i rapporti con gli allenatori non sono stati proprio idilliaci. Non sapeva che così facendo avrebbe rappresentato un ideale di stabilità e appartenenza, sarebbe stato un simbolo di cui si sente il bisogno, sarebbe diventato un mito in un'epoca che ha ucciso tutti i miti.
Per tutto questo, grazie capitano, da uno che non segue il calcio.
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