Parigi. Ancora Parigi. E ancora un attentatore immigrato di seconda generazione, cioè nato e cresciuto in Europa. Al punto che diventa sempre più forte il dubbio che il terrorismo abbia origini e cause interne: la crisi economica, l'emarginazione delle periferie, la disoccupazione, la frustrazione dei giovani che non riescono a trovare una loro collocazione sociale e la conseguente delusione per le promesse di riscatto sociale tradite. L'Isis rivendica questi attentati per pura propaganda e gli esecutori materiali si servono dei riferimenti dell'integralismo islamico per darsi una veste identitaria. Ma non necessariamente l'Isis è il mandante. A meno che non si voglia a tutti i costi trovare un capro espiatorio esterno per i mali di una società che sono tutti interni. Finché non si prende atto che all'origine del terrorismo su suolo europeo c'è il fallimento delle politiche di integrazione, non si metteranno in campo le adeguate contromisure di contrasto. Ammesso che ce ne possano essere dal punto di vista strettamente militare, considerato che nella maggior parte dei casi, come si è visto, non si tratta di terrorismo organizzato come quello che abbiamo conosciuto in Italia negli anni Settanta e Ottanta.
Ci siamo illusi che bastasse l'accoglienza umanitaria, ma non è così. Ci siamo illusi che bastasse garantire un lavoro a queste persone e non ci siamo preoccupati di costruire un sistema di valori condiviso partendo dalle rispettive identità e differenze, ma tenendo fermi i valori di democrazia, rispetto per le diversità, ruolo della donna, rispetto dei diritti di ciascuno, rispetto della libertà di pensiero che sono il nostro patrimonio irrinunciabile anche in un processo di integrazione.
Il lavoro poteva essere il viatico all'integrazione in un periodo di vacche grasse, di economia in crescita, quando c'erano possibilità occupazionali anche per i nuovi arrivati, ora non più. Gli immigrati di vecchia generazione sono i primi a perdere il lavoro a seguito della crisi e i figli nati in Europa fanno più fatica di altri a trovare lavoro, così come gli autoctoni professionalmente più deboli con la crisi sono i primi a perdere il lavoro e a fare più fatica a trovarne un altro. Se viene meno il lavoro e non si è costruita una rete di valori condivisi la deriva è inevitabile. Aumenta di conseguenza la sofferenza dei ceti sociali più deboli, che siano di origine extracomunitaria o meno. Ma anziché prendere coscienza di un destino comune, anche per l'assenza di partiti capaci di organizzare i ceti sociali più bisognosi di rappresentanza, questo innesca una miscela esplosiva: da un lato la guerra tra poveri, dall'altro la chiusura identitaria da entrambe le parti. I più deboli "nostrani" si sentono minacciati in un contesto di risorse scarse e accarezzano idee xenofobe e nazionaliste, gli altri, nati e cresciuti qui, per contrapposizione, riscoprono l'identità delle origini di provenienza dei genitori. Ed è su questo scontro, nel vuoto di rappresentanza lasciato dalla sinistra e dai sindacati, le cui origini e cause sono comuni, che prosperano avventurieri politici che rischiano di portarci alla deriva.
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