Ieri, 25 settembre 2009, era il quarto anniversario della morte di Federico Aldrovandi e anche ieri ci si è ritrovati davanti l'ippodromo, dove Federico fu ucciso. E' stata, come ha ricordato Patrizia, la mamma, la prima commemorazione dopo la sentenza di condanna di primo grado dei quattro agenti autori del pestaggio del ragazzo.
Eppure, la sensazione che si ha è che giustizia non sia stata fatta. Non dal punto di vista processuale, perché il fatto che la sentenza abbia accolto in pieno l'ipotesi accusatoria è un grande risultato. Non è questo. Ciò che lascia un senso di angoscia è che quelli che dovrebbero essere "i servitori dello Stato", quindi dei cittadini, non abbiano ancora sentito il bisogno di chiedere perdono, di ammettere di aver sbagliato, di essersi fatti prendere la mano, di riconoscere un proprio grave deficit professionale, quando non addirittura una negligenza. Di dolersi per questo, di chiedere (questo avrebbero dovuto fare i sindacati e non una difesa corporativa) maggiore professionalità, corsi di preparazione più adeguati per affrontare situazioni come quella di Federico con tecniche non violente, di essere messi in condizioni da quello Stato di cui si dicono "servitori" di non incorrere più in tragici errori (perché l'omicidio colposo questo presuppone) come quello del 25 settembre 2005. A quattro anni da quella morte nulla di tutto ciò è avvenuto. Anzi, abbiamo dovuto ascoltare parole arroganti (della serie: "io dormo tranquillo, altri forse no", parole di uno degli imputati). Ciò significa, se ci atteniamo a queste parole, che quella giovane vita stroncata in loro non ha lasciato la minima traccia. Nulla. Un incidente di percorso, come se si fosse trattato di una qualunque pratica burocratica, di un pezzo di carta che va smarrito in un cassetto e lì resta chiuso. Uno dei tanti. È questo che ci fa male.
È proprio ciò che ci fa dire che giustizia non è stata fatta e che ci fa temere, come cittadini, che quanto accaduto a Federico può ripetersi. Perché se nei protagonisti dei fatti non si è prodotto un rigurgito di coscienza (non sappiamo cosa è avvenuto dentro di loro, sappiamo cosa pubblicamente hanno dichiarato e fatto), e la loro umanità non si è fatta toccare da quella giovane vita, allora vuol dire che c'è qualcosa di distorto, di malato e che compito dello Stato è di curare questa malattia, ad esempio con una più accurata selezione e formazione del personale delle forze dell'ordine. Anche questa è giustizia.
Vorremmo come cittadini che lo Stato, attraverso i suoi massimi vertici istituzionali, dal ministro dell'interno al capo della polizia, si sedessero intorno ad un tavolo insieme a degli esperti per analizzare i dettagli di quanto accaduto il 25 settembre 2004 e di individuare tutti gli errori, le negligenze, l'imperizia degli agenti intervenuti e di sottoporre il personale di tutte le forze dell'ordine a corsi di formazione adeguati. Perché così noi cittadini potremmo veramente dire di sentirci sicuri e giustizia sarà fatta. Perché la sicurezza è anche quella di non dover temere che un proprio figlio, in una notte di fine estate, incontri una pattuglia della polizia.
Giuseppe Fornaro
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