Te ne sei andato tredici anni fa. Lo
stesso giorno in cui il mio primogenito compiva dieci anni. L’ho saputo solo
oggi. Ho sperato fino all’ultimo non fosse il tuo quel nome che mi era comparso
nella ricerca su internet. Ma c’erano molte, troppe coincidenze. Il tuo cognome
unico nella tua città, l’anno di nascita. Tutto faceva pensare fossi tu. Ma ho
sperato in un’omonimia.
In tutti questi anni ti ho sempre
cercato, soprattutto dall’avvento dei social. Ma nulla. Solo l’altro giorno,
dopo che durante la notte sei venuto a trovarmi in sogno, sei saltato fuori ad
una nuova ricerca su un sito che raccoglie i nomi dei defunti. Sicuramente una
coincidenza. Razionalmente non può essere altrimenti. Ma la vita e il mondo non
è solo razionalità. Hai voluto farmi sapere che ci avevi lasciato. Ho
telefonato al cimitero della tua città per verificare l’attendibilità di quel
sito. Un defunto col tuo nome e con quella data di nascita effettivamente c’è.
E così ho deciso di venire a trovarti. Tante domande mi sono fatto nei giorni
precedenti all’incontro con te: perché sei morto, cosa ti è successo? Ma un
tarlo mi tormentava. La nostra non è stata un’amicizia superficiale. Parlavamo
molto nei nostri incontri all’università, discorsi profondi, mai banali, mai
superficiali. Eri una persona speciale, dalla sensibilità non comune, quella
stessa sensibilità che, temevo nei giorni precedenti all’incontro con te,
potesse essere la causa della tua morte. Questo mondo era troppo banale per te,
troppo superficiale, fatto di luci e lustrini che non si adattano a persone
come te. In questo mondo cercavi una verità più profonda, un’autenticità che
forse non esiste, se non in persone come te.
Per il viaggio verso la tua città mi
sono portato un libro da leggere. I libri, la tua passione. Ho voluto così
prepararmi all’incontro portandomi appresso qualcosa che ricordasse la nostra
amicizia, nonostante non avessi, razionalmente, la certezza che avrei
incontrato proprio te. La certezza, purtroppo, mi veniva da dentro, da un
livello più profondo. Sono arrivato al cimitero, ho chiesto di te, mi hanno
dato una piantina con tutte le indicazioni. Ho vagato tra le file delle tombe
disposte su più livelli con il cuore in gola. I battiti aumentavano man mano
che mi avvicinavo al numero e alla fila della tua tomba. Finché non ti ho
visto. Quella certezza che avevo dentro è diventata una dura realtà. Dura come
quel marmo che racchiude le tue spoglie. Eri lì. La tua foto ti ritraeva così
come ti ricordavo, con il tuo sguardo profondo che guarda oltre l’obiettivo che
in quel momento ti stava inquadrando, così come era il tuo sguardo sulle cose
del mondo e della vita. Anche in quel momento, forse spensierato, che ti
immortala (scusa il gioco di parole) in quello che sembra un edificio storico
con le pietre a vista, la mano destra poggiata su un muretto. Non sorridi.
Guardi. Guardi oltre. Oltre noi, comuni mortali.
Davanti alla tua tomba ti ho chiesto
perché. Una domanda muta, alla quale hai voluto darmi una risposta. Infatti, mentre
ero lì con te sono arrivati dei tuoi parenti con i quali sono riuscito a
scambiare poche frasi. Di più non sono stato capace di fare. Ciò che già sapevo
dentro di me ha trovato conferma e un grido mi si è strozzato in gola trasformandosi
in un suono gutturale. Hai voluto mettere fine alla tua vita a trentasei anni.
Sindrome bipolare della personalità, dicono. Ma chi non lo è bipolare? Capita a
tutti di alternare stati d’animo di gioia a situazioni di malinconia. È il
normale flusso della vita, la sua alternanza di situazioni che spinge il nostro
umore in altalena. Siamo come marinai solitari che navigano in mare aperto esposti alle intemperie. E ci tocca governare questa nave che è la vita. E allora? Siamo tutti da curare? Siamo sicuri che uno stato
di piatto equilibrio sia indicatore di una sanità mentale quando tutto intorno
a noi cambia, quando gli eventi che accadano sono tali da non poterci lasciare
indifferenti? Siamo sicuri che questa algida fermezza interiore sia la spia di
un equilibrio psicologico e non piuttosto di una patologia che la società ha
accettato e sostenuto per non essere messa in discussione nei suoi fondamenti
di ingiustizia e crudeltà?
Tu non volevi curarti. Sapevi
benissimo che quel tipo di cure tolgono la dignità alla persona, la
spersonalizzano, la annullano nella sua essenza. Sapevi benissimo che non eri
tu il malato, ma questa società che ci costringe ad annullare le nostre
sensibilità per indurci una certa dose di cinismo che serva a farci
sopravvivere e soprattutto a far sopravvivere questo sistema dove le persone
sono ingranaggi. E tu, invece, volevi essere te stesso fino in fondo. Volevi sottrarti
a questo meccanismo diabolico. Volevi resistere. Così hai attuato la più
estrema forma di resistenza a questo mondo che un essere umano possa mettere in
atto per rimanere fedele a se stesso. Sei stato partigiano di un’umanità
dolente. E te ne sei andato con tutto il tuo essere, lasciandoci soli, qui, a
combattere contro un mondo fatto di luci e lustrini e con la nostra dose di
cinismo che ci consente di sopravvivere.
Addio Amico e compagno. Addio!
Caro Giuseppe, mi avevi accennato a questo dolore quando ci siamo incontrati ieri e io mi sono messa a raccontarti il mio di dolore, per essere stata, appena la mattina stessa, al funerale di una cara amica, anche lei per niente appartenente al mondo dei lustrini, ma vera, come i fiori, gli animali e le persone che aiutava come poteva, lei coi suoi vispi 80 anni. Ma il male è in agguato, non perdona, né premia le anime pure. Del tuo raccontare la persona speciale che era il tuo amico mi colpisce anche questo: "Non volevi curarti. Sapevi benissimo che quel tipo di cure tolgono la dignità alla persona, la spersonalizzano, la annullano nella sua essenza. E tu volevi essere te stesso fino in fondo". Ho vissuto da vicino con mia madre le cure di cui parli e che credo siano state il più grande tradimento e travisamento della lezione del dottor Franco Basaglia. Parlo di questo a te anche perché ieri ho stupito me stessa mettendomi a raccontare per prima il mio fresco dolore (pur stimandoci, non abbiamo questo tipo di confidenza)e non finivo di vergognarmi per averlo fatto, quando tu con grande naturalezza mi hai parlato a cuore aperto del tuo dolore e della ricerca del tuo amico che purtroppo si è conclusa davanti alla sua tomba. Che dire? Oltre che ti stimo, ti voglio bene. francesca.
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