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L'irrisolta "questione palestinese" favorisce gli estremismi

Pubblicato da ferraraitalia.it il 4 agosto 2014

Qualcuno si è chiesto perché tanta tiepidezza, anche a sinistra, sul conflitto in corso nella striscia di Gaza. Perché non c’è uno schieramento unanime, o per lo meno prese di posizione nette a favore dei palestinesi. A mio parere le ragioni sono molteplici.
Intanto, l’offensiva militare sferrata da un’organizzazione politica che si ispira a principi del fondamentalismo islamico, non incontra simpatie nel mondo occidentale. Per quanto, va detto subito, Israele sia nata da un altro fondamentalismo religioso, il sionismo, come ritorno alla terra promessa, la terra dei padri. Qui però siamo di fronte a generazioni che con il sionismo c’entrano poco. I militari israeliani sono in gran parte giovani nati in Israele che combattono per difendere la loro patria e che forse del sionismo gli interessa fino ad un certo punto perché quella per loro, prima che essere la terra promessa, è semplicemente casa. Una cosa semplice e familiare a ciascuno di noi.
Dall’altro lato, Hamas attacca Israele solo marginalmente per rivendicare il diritto ad una patria per i palestinesi, ma soprattutto perché la questione palestinese in tutto il Medioriente è un tema su cui si gioca la leadership di organizzazioni islamiche come Hamas appunto. Per dirla fuori dai denti, ad Hamas dei palestinesi interessa fino ad un certo punto. Il perpetuarsi della questione palestinese fa comodo agli opposti estremismi, tanto alla destra israeliana, quanto alle organizzazioni di ispirazione islamica dopo che l’Olp è implosa a seguito di scandali di corruzione e dopo la morte procurata del leader simbolo della lotta palestinese che è stato Arafat.
Arafat e l’Olp, negli anni Ottanta riuscirono a catalizzare l’attenzione di tutto il mondo e a generare un ampio consenso trasversale intorno alla causa palestinese. L’Intifada, qualcuno forse ancora se la ricorda, fu una grande lotta di popolo. Ho ancora negli occhi i bambini palestinesi che armati di sole fionde sfidavano uno degli eserciti più potenti del mondo. Furono quelle immagini, e non i quarti di corpi martoriati di bambini diffuse da Hamas, a far crescere il consenso intorno ai palestinesi. Fu quella lotta di popolo, estesa, corale a suscitare le simpatie di tutto il mondo e di tutti gli schieramenti politici. Fu resistenza vera. Fu l’Intifada a riempire di manifestazioni le piazze d’Italia. La kefia era diventata il simbolo che molti di noi indossavano come segno di solidarietà, non ad un’organizzazione politica, ma ad un popolo. Gli studenti universitari palestinesi, nostro compagni di studi, ci vendevano il famoso foulard, che Arafat aveva fatto diventare un simbolo, come forma di autofinanziamento della causa. Molti di noi, ben volentieri, corrispondevano a questa forma di solidarietà.
Hamas ha commesso l’errore di sfidare Israele sul piano militare, ponendosi di conseguenza come controparte armata, non avendo i mezzi, le strutture logistiche, la tecnologia e tutto quanto occorre per fare un esercito impegnato in un conflitto. I suoi non sono stati atti di terrorismi classicamente intesi, ma un vero e proprio atto di guerra. Su quel terreno non può che perdere il confronto e a rimetterci, come si vede, è la popolazione civile. Ma soprattutto Hamas non ha il consenso di larga parte della popolazione palestinese. I missili rudimentali dal punto di vista tecnologico, ma molto pericolosi, lanciati in territorio israeliano non servono tanto per intimorire Israele, ma servono come politica interna nella lotta per la leadership palestinese, per dimostrare che si fa sul serio. Tant’è che mentre il presidente dell’autorità palestinese tenta un dialogo con i vertici di Israele, e dunque sono in corso contatti diplomatici, Hamas lancia i missili che sembrano più essere diretti contro l’autorità palestinese stessa che contro Israele. Altrimenti non si spiega come mai il conflitto scoppi proprio in questo momento e contemporaneamente la Libia è in fiamme interessata da un altro conflitto interno anche lì di ispirazione islamica. L’Ansa di venerdì 1 agosto riferisce che “I jihadisti libici di Ansar al Sharia annunciano di aver preso il controllo "completo di Bengasi" e di aver proclamato "un emirato islamico". L'annuncio è arrivato da un responsabile del gruppo, citato da al Arabiya”. Lo stesso dicasi per Iran e Siria.
Insomma, un’offensiva in grande stile sferrata da organizzazioni di ispirazione islamica e integralista su uno scenario Mediorientale ampio. Dove si voglia andare a parare non sta a me dirlo. Alcuni osservatori parlano di un disegno islamico su ampia scala. O forse anche questa è una cortina fumogena e questi movimenti e queste guerre sono alimentate proprio da coloro che della sopravvivenza degli opposti estremismi ha fatto un business.

Se così è, occorre uno sforzo di analisi politica seria, che vada oltre le emozioni suscitate da immagini cruente diffuse ad arte per provocare l’emozione di un momento in noi occidentali consumatori di sensazioni forti. Occorre una politica estera dell’Italia e dell’Europa che si occupi specificamente del Medioriente. Occorre forza e autorevolezza per occuparsene ed essere ascoltati. Forse occorre semplicemente una politica tout court.

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