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Economia familiare. Un'impresa da specialisti della sopravvivenza


Rocca, n. 21, 1 novembre 2011

“Quelli che alla terza settimana…”, titolavamo due anni e mezzo fa su Rocca (n. 6/2009) a proposito della crisi che mordeva, e morde ancora, i redditi delle famiglie italiane il cui stipendio non basta ad arrivare alla terza settimana del mese. Da allora la situazione non è migliorata affatto. Arrivare a fine mese resta un’impresa da specialisti della sopravvivenza, per chi un lavoro, nel frattempo, lo ha conservato. Sì, perché in questi anni l’occupazione è stata falcidiata da imprese che hanno chiuso i battenti. Capita, infatti, sempre più spesso di sentire intorno a sé di conoscenti o amici di conoscenti che hanno perso il lavoro in imprese con il portafoglio ordini pieno in cui nulla poteva far presagire una chiusura. Eppure, è proprio quanto si è verificato. Molti imprenditori si sono mimetizzati dietro la crisi, pur non risentendo, di fatto, dei suoi effetti, per delocalizzare le produzioni, continuare a fare profitti e continuare ad alimentare così la finanziarizzazione dell’economia da cui è partita proprio la crisi mondiale che ha investito in primo luogo gli USA e poi a cascata tutti gli altri paesi, Europa in testa. Come se la crisi non avesse insegnato nulla.
A dimostrazione del fatto che per le famiglie in questi ultimi anni le cose non sono affatto migliorate, ma, semmai, peggiorate arrivano i dati dell’Istat che ci informa che nel secondo trimestre del 2011 la propensione al risparmio delle famiglie, definita dal rapporto tra il risparmio lordo delle famiglie e il loro reddito disponibile (dati destagionalizzati), è stata pari all'11,3%, in diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 1,2 punti percentuali rispetto al secondo trimestre del 2010. Questo nonostante che il reddito disponibile delle famiglie sia  aumentato dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 2,3% rispetto al secondo trimestre del 2010. Una ragione, ovviamente, c’è. Ed è sempre l’Istat a fornirla: la spesa delle famiglie per consumi finali in valori correnti è aumentata dello 0,9% rispetto al trimestre precedente e del 3,7% rispetto al secondo trimestre del 2010. Questo non perché quel 2,3% in più di reddito disponibile ha indotto gli italiani all’euforia seguendo il consiglio di Berlusconi di essere ottimisti, ma perché, è sempre l’Istat a dirlo, al netto dell'inflazione, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% rispetto al secondo trimestre del 2010. Insomma, come ciascuno sa, la ragione sta nell’aumento dei prezzi al consumo. Emblematico il caso del prezzo del carburante in continua ascesa nonostante il valore del greggio vada spesso in altalena, ma il consumatore finale conosce solo il trend in salita. Ora ci si è messo anche l’aumento dell’Iva voluto dal duo Tremonti-Berlusconi di un punto percentuale, passando dal 20 al 21% che va a colpire tutti i principali beni di consumo con un’imposta per sua natura iniqua perché non progressiva. Quell’1% in più, infatti, incide maggiormente sui redditi bassi che non su quelli medio-alti, e in un momento di crisi indurrà ad un ulteriore erosione del potere d’acquisto e alla contrazione dei consumi con conseguente stagnazione dell’economia. Ma già prima che intervenisse l’aumento dell’Iva, l’indice delle vendite del commercio al dettaglio a prezzi correnti, rispetto alle attese, mentre a giugno 2010 faceva registrare un +0,7%, a luglio di quest’anno crollava a meno 2,4%. E luglio è il mese delle vacanze per molti, segno che la crisi ha colpito anche il settore del turismo.
Se da agosto 2010 allo stesso mese di quest’anno l’inflazione è aumentata dell’1,2%, passando dall’1,6 al 2,8%, sarà interessante verificare nell’ultimo trimestre dell’anno di quanto si sarà ulteriormente eroso il potere d’acquisto delle famiglie proprio in conseguenza della manovra finanziaria.
L’Iva, però, è solo una dei provvedimenti che pescano nelle tasche degli italiani. In molte regioni, ad esempio, il costo del trasporto pubblico, a seguito dei tagli dei trasferimenti alle Regioni, sta conoscendo un incremento che si accompagna ad un peggioramento della qualità del servizio per via dei tagli alle corse di treni e autobus urbani. Ad essere colpiti non sono i servizi di lusso come la Freccia Rossa, ma i treni per i pendolari che ogni giorno usano il trasporto pubblico per recarsi al lavoro e su cui si abbatte la scure dei tagli. E siccome a lavorare ci si deve andare, sempre più spesso si ricorre all’uso dell’auto con un ulteriore incremento dei costi.
Ma non è finita. Perché a seguito del mancato trasferimento della quota di finanziamento del Servizio sanitario nazionale dallo Stato alle Regioni, Emilia Romagna, Toscana e Umbria si sono viste costrette ad introduce il ticket sui farmaci e sulle visite specialistiche per fasce di reddito, esclusa una prima fascia esente fino ad un reddito lordo di poco più di 36mila euro annui. Per la specialistica, invece, c’è stato un aumento secco di cinque euro sul costo delle prestazioni ai quali si aggiunge, anche qui per fasce di reddito, un ulteriore quota fissa che va da 5 a 15 euro a ricetta.
Siamo andati a sentire le stesse persone che parlarono con noi due anni fa delle difficoltà incontrate nella gestione della vita familiare in tempi di crisi. Così se Stefano, già allora, invocava la protezione del Signore perché gli conservasse la salute, ora fa appello anche a tutti i Santi. “E’ un attimo varcare la soglia dell’indigenza – dice confermando quanto ci raccontò due anni e mezzo fa - se ci si ammala. Sarei anche disposto a rivolgermi alla sanità pubblica pagando quello che c’è da pagare, ma se scopri di avere una patologia importante in cui il fattore tempo è fondamentale devi rivolgerti alle visite private e sono dolori, perché con le liste d’attesa che ci sono nella sanità pubblica il rischio è che quel fattore tempo diventi determinante per la tua esistenza”. E Stefano di grattacapi ne ha un bel po’ e accetta di raccontarceli perché è indignato. “Ho dovuto affrontare delle spese legali per il divorzio perché la mia ex moglie, più forte di me economicamente, mi ha trascinato in una causa che avrei preferito evitare. Ebbene, oltre al danno anche la beffa quando il mio avvocato mi ha presentato una parcella di cinquemila e 500 euro. Abbiamo trovato un accordo con una forte riduzione pagando senza fattura. Ho dovuto ingoiare anche questo rospo di guardare in faccia un evasore e non poter fare nulla”.
Ecco, quando si parla di evasione fiscale di alcune categorie non si fa dell’accademia, ma si parla di vite di persone in carne ed ossa. Di quelli che evadono, e che magari il problema se ricorrere o meno alle cure private non se lo pongono nemmeno nel caso di bisogno, e di quelli che invece subiscono una sanità pubblica degradata anche grazie a quegli evasori che conoscono bene per nome e cognome. Una stima dell’Istat del luglio 2010 sull’economia sommersa dice che “la parte più rilevante del fenomeno è costituita dalla sottodichiarazione del fatturato e dal rigonfiamento dei costi impiegati nel processo di produzione del reddito. Nel 2008 l’incidenza del valore aggiunto non dichiarato - scriveva l’Istat – dovuto alle suddette componenti raggiungeva il 9,8 per cento del Pil (era il 10,6 per centro nel 2000)”.
Vedere in faccia gli evasori che vivono alla porta accanto è un’esperienza quotidiana. In questi giorni in cui nelle regioni suddette bisogna presentare l’autocerficazione nelle farmacie per vedersi attribuita la fascia di reddito e il conseguente ticket, se ne vedono di tutti i colori. “L’altro giorno ero in farmacia, un signore che era arrivato con un fuoristrada della Porsche, come nulla fosse ha dichiarato di avere la fascia di reddito più bassa. Io, invece, che ho un lavoro dipendente – racconta Patrizia, un’altra nostra vecchia conoscenza – ho dovuto dichiarare di appartenere alla seconda fascia di reddito e pagare oltre al prezzo del farmaco un euro per ogni confezione prescritta. E io una macchina così me la sogno e mio marito per lasciare a me l’unica che abbiamo fa il pendolare in treno”. Usando quei servizi sfasciati che le Regioni si sono viste costrette a tagliare grazie anche a gente come quella che ha incontrato Patrizia in farmacia.
Nemmeno per Alessandra, che ora ha 32 anni, cassiera part time con contratto interinale in un supermercato, la situazione è cambiata. Ha cambiato solo posto di lavoro passando da un supermercato all’altro grazie alle agenzie private di collocamento della manodopera, ma la sua vita resta precaria anche dal punto di vista della stabilità affettiva non potendo immaginare di mettere su famiglia. “A quelli della mia generazione hanno rubato i sogni e anche la speranza. I sogni e la speranza di una famiglia, dei figli, di una vita serena, mica chissà che. Ci hanno rubato anche la  possibilità di fare dei progetti. Se penso alla mia vecchiaia e che non avrò una pensione, mi dico che sulla pelle della mia generazione si sta consumando un’ingiustizia troppo grande da sopportare”.
Se dovessimo riassumere in un concetto cos’è cambiato nella vita di queste persone in due anni e mezzo, potremmo dire che siamo al culmine della pazienza, che la rabbia sta montando e che se non si corre subito ai ripari ricostruendo un collante fatto di giustizia sociale, la stessa democrazia potrebbe essere a rischio.
Giuseppe Fornaro

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