Cosa sappiamo di quanto sta accadendo in Egitto? Quali le prospettive del paese? Ormai dell’Egitto la nostra stampa non ne parla più. Dopo i fatti di piazza Tahrir i riflettori si sono spenti. E così da uno degli incontri della prima giornata del Frestival di Internazionale a Ferrara, “Rivoluzione, atto primo. Speranze e pericoli del dopo Mubarak” veniamo a sapere che la primavera egiziana non è solo piazza Tahrir.
Già un’ora prima dell’inizio davanti al cinema multisala Apollo, in pieno centro, c’erano persone in attesa di entrare, mentre un maxi schermo proiettava all’esterno un’altra tavola rotonda in corso all’interno dal titolo “Nei corridoi del Cremlino. Mosca alla vigilia delle elezioni”. Età media delle persone in attesa, trent’anni. Ed è così per tutti gli incontri in corso sparsi per la città in contemporanea su diversi temi, dall’immigrazione, all’economia, alla proiezione di documentari, a riflessioni su come cambia l’informazione nell’era di internet. Ed è questo ciò che colpisce del festival che ormai da cinque anni apre una finestra sul mondo dal vivo: la voglia di conoscenza e di informazione delle giovani generazioni troppo spesso e troppo facilmente liquidate come disinteressate. “Sono qui – dice una ragazza di sedici anni insieme ad un’amica e un amico di un paio d’anni più grandi – perché voglio sentire direttamente dalla fonte cosa sta succedendo in Egitto, cosa non ci dicono la nostra televisione e i nostri giornali”. Lo scopriremo ascoltando Issandr el Amrani, giornalista, fondatore del blog The Arabist che in mattinata ha ricevuto il premio giornalistico Anna Politkovskaja; Hossan el Hamalawy, giornalista, fondatore del blog Arabawy; Ahmed Nagi, giornalista e scrittore; Sarah el Sirgany, giornalista e blogger egiziana.
Intanto, veniamo a sapere che la rivoluzione in quel paese sta continuando, sta coinvolgendo i luoghi di lavoro, le fabbriche, gli ospedali, le università. Le persone si stanno riappropriano del diritto di partecipare e decidere, come è successo in un ospedale dove i lavoratori, medici e non, hanno incrociato le braccia e costretto il direttore a dimettersi nominandone un altro scavalcando i sindacati istituzionali. Sono stati proprio gli scioperi massa a far crollare il regime. Veniamo a sapere che non è stata rosa e fiori, che sono stati necessari atti di forza come l’occupazione dei commissariati di polizia, che nell’aria hanno fischiato i proiettili di kalasnikov. Nella società civile si discute e ci si divide se boicottare o meno le elezioni che dovrebbero tenersi a novembre. Per el Amrani è un falso problema perché ci vorranno almeno quattro-cinque anni prima di sedersi intorno ad un tavolo a discutere di nuova costituzione ed elezioni. E comunque non prima di aver cacciato i tanti piccoli Mubarak annidati nei gangli del potere, da quello centrale a quello periferico e a rimuovere i vertici dell’esercito che hanno fatto da stampella al regime di Mubarak.
C’è poi la questione dell’islamismo, in occidente agitato come uno spauracchio, ma che è una realtà molto più articolata. Mentre per Nagi i fratelli musulmani sono un po’ come il fumo negli occhi, più interlocutoria, e da sinistra, la posizione di el Amrani “Per i progressisti – dice – la battaglia è tra uno stato laico e uno stato islamista. Ci sono molti di sinistra ossessionati dal laicismo, ma non si occupano di una politica di classe, mentre di fronte alle politiche sociali i fratelli musulmani non sono un monolite e così molti giovani musulmani, disobbedendo alle indicazioni dei vertici islamici, partecipano ai movimenti di massa mentre i vertici dei partiti fanno compromessi con i militari del consiglio di sicurezza che detiene il potere”.
Si potrebbe pensare che il tam tam che aveva fatto confluire migliaia di persone in piazza Tahrir fosse merito della rete. Nulla di più falso. Ancora una volta la televisione ha avuto un ruolo fondamentale, in particolare Al Jazira. La rete era stata oscurata e i cellulari non funzionavano. Qualche sporadico telefono fisso riusciva ancora a comunicare. Così gli organizzatori hanno creato l’evento prima che accadesse. Sono andati direttamente nelle redazioni radio televisive annunciando per l’indomani che migliaia di persone si sarebbero radunate in piazza per protestare contro il regime. E così è stato. I notiziari tv sono entrati in tutte le case producendo un effetto tsunami che il regime non si aspettava.
A fare da collante è stata l’ingiustizia di un regime corrotto. “Finché le persone non sentono sulla propria pelle l’ingiustizia il ruolo dei media è limitato”, ha detto la blogger el Sirgany. E sembra fare eco alla sedicenne in coda prima di entrare: “Da noi i giovani non si ribellano perché le contraddizioni sono meno evidenti”. Saggezza di una teen ager.
Faccio una constatazione: dalle vicende nordafricane si potrebbe dedurre che sia più facile, per dei movimenti di piazza, abbattere regimi autoritari consolidati da decenni di potere assoluto, che non il malaffare di un regime democratico, pur con tutti i distinguo che vogliamo, come il nostro. Che i sistemi democratici abbiano questo limite?
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