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Cohousing. Insieme ma in libertà

Rocca, n. 15, 1 agosto 2009, pag. 37

Si scrive co-housing, ma si pronuncia coabitare, condivisione di spazi comuni e di comuni visioni delle relazioni tra le persone e tra queste e l’ambiente, ma è anche un diverso modo di concepire gli spazi urbani. Se vogliamo, è la nuova frontiera del concetto di comunità: non più un insieme informe e mononucleare di famiglie che neppure si conoscono tra loro, pur condividendo lo stesso pianerottolo, ma famiglie (single compresi) che scelgono, e si scelgono, di condividere un nuovo modo di abitare, chi per affrontare la crisi, chi per prevenire la solitudine dell’età adulta, chi per allevare i figli in un contesto a misura di bambino in una relazione di mutuo aiuto, soprattutto per le famiglie mono genitoriali, chi per offrire al quartiere servizi e opportunità di socializzazione.Sia ben inteso, coabitando ognuno conserva la privacy del proprio appartamento con in più il vantaggio di risorse, spazi e servizi condivisi. Così si va dall’edificio che ha in comune una piccola biblioteca auto gestita; o una sala dove ci si ritrova per cenare tutti insieme o fare delle feste, magari da mettere a disposizione periodicamente per le iniziative del quartiere; fino a quelli che immaginano un asilo auto gestito per i piccoli da non dover portare in giro per la città, riducendo così tempi, stress, costi e impatto ambientale; oppure coloro che prevedono un piccolo terreno intorno alla casa sufficiente alle produzione di ortaggi per l’autoconsumo del caseggiato; o ancora coloro che immaginano il car sharing di condominio o addirittura di quartiere. Dunque, non un semplice condominio, ma uno stile di vita.
È così che sparse per l’Italia stanno sorgendo associazioni di co-housing che cominciano a muovere i primi passi (Torino, Milano, Ferrara), anche se di realizzazioni concrete ancora non se ne vedono, ma è un fatto che se ne cominci a discutere. In Danimarca il fenomeno è iniziato tra gli anni ’60 e gli anni ’70 per poi attecchire anche negli USA, come ci racconta la professoressa Francesca Leder, docente di pianificazione territoriale alla facoltà di architettura dell’Università di Ferrara, che ha visitato oltreoceano alcune di queste esperienze per conto dell’associazione ferrarese “Co-housing Solidaria” con la quale l’Università collabora per la realizzazione del progetto cittadino. “A due chilometri dall’Università di Harvard c’è una comunità di co-housing che è sorta su una vecchia area industriale dismessa con il contributo dell’amministrazione pubblica. In cambio l’amministrazione ha chiesto ai componenti del co-housing di mettere a disposizione di tutti un giardino curato dalla comunità e una volta al mese una grande sala fruibile dagli abitanti del quartiere. Inoltre, siccome la zona era servita da una vecchia ferrovia i co-houser l’hanno trasformata in una pista ciclabile”. Fantascienza, si direbbe, se non fosse per la serietà della fonte da cui proviene l’informazione. Tanto più che da noi in Italia a determinare le politiche urbanistiche delle città, e quindi il governo del territorio, non sono i comuni cittadini, ma gli immobiliaristi che acquisendo aree premono poi sulle amministrazioni pubbliche affinché tali aree rientrino tra quelle edificabili nei Piani strutturali comunali (i vecchi Piani regolatori). Comprano a dieci e rivendono a cento, contribuendo magari, come contropartita, a finanziare gli eventi culturali del Comune o sponsorizzando la locale squadra di calcio o di basket. Un dare e un avere reciproco tra la politica e gli affari perfettamente legale, se si limita a questo. Ma questa è un’altra storia. O forse no.
“Su alcuni temi – dice la prof.ssa Leder – la produzione dei piani regolatori risponde ancora a istanze vecchie che non tengono conto dei mutamenti dei bisogni sociali”. “Recuperare delle aree che hanno un valore storico attraverso il co-housing e con l’aiuto dell’intervento pubblico – spiega ancora la prof.ssa Leder - vuol dire evitare che quelle diventino aree di pregio per pochi, purché la contropartita per il territorio sia una serie di spazi e servizi a disposizione di tutta la comunità. In questo modo si possono mettere in circolo dei beni che altrimenti non sarebbero utilizzabili. Così la comunità di co-houser non si ricostruisce solo al suo interno, ma anche nel rapporto con il vicinato. Il rischio da evitare è di creare delle comunità chiuse verso l’esterno”. Insomma, il co-housing in sinergia con il pubblico potrebbe avere un effetto di calmieramento dei prezzi degli immobili nelle varie zone di una città. Tema quanto mai attuale e strategico per allargare la fascia di chi può accedere ad un tetto a prezzi ragionevoli, non determinati esclusivamente dalle logiche della speculazione edilizia. Diventa, così, fondamentale il rapporto tra le associazioni e le amministrazioni pubbliche, in primo luogo, per portare a conoscenza degli amministratori, che spesso ne sono all’oscuro, di questa nuovo stile dell’abitare, in secondo luogo, per partire da una ricognizione del patrimonio immobiliare pubblico che può fare al caso, prima che cada nelle mani degli speculatori qualora dovesse essere alienato. Come si è cominciato a fare da alcuni mesi a Ferrara con l’amministrazione che ha appena concluso il proprio mandato incontrando l’interesse degli amministratori uscenti.
“Non vogliamo gli immobili pubblici gratis – ci tiene a precisare Alida Nepa, una delle principali ispiratrici dell’associazione ferrarese - ma vorremmo dei prezzi ragionevoli e calmierati, e questo prezzo potrebbe essere duemila euro al metro quadro, chiavi in mano”.
A ben guardare questa idea del co-housing nel nostro paese ha un retroterra culturale che è scomparso con l’avanzare dell’industrializzazione e la migrazione verso la città, ma che ha le proprie radici nella cultura contadina, nelle vecchie corti dei grandi poderi dove vivevano insieme più famiglie sulla stessa terra che al bisogno si aiutavano a vicenda, dove le donne coltivavano insieme l’orto per l’autoconsumo, dove ci si ritrovava tutti insieme nel fienile nelle serate invernali mentre le donne lavoravano la lana ai ferri e gli uomini facevano piccoli lavoretti. I bambini crescevano con un concetto di comunità ben presente e con più figure adulte di riferimento. Non si vuole qui mitizzare un’epoca le cui condizioni di vita per la maggioranza delle persone erano molto dure, ma sicuramente il concetto di comunità, e con esso la solidarietà, era molto forte e presente tanto che la migrazione verso le città provocò forti problemi di adattamento e socializzazione. Anche oggi è sempre più frequente constatare quanto l’atomizzazione della società stia provocando un crescendo di situazioni di disagio psicologico diffuso tra i singoli e le famiglie. Disagio e trasformazione della società su cui sono stati scritti interi tomi di sociologia, trovando un’eco persino nella musica leggera: chi non ricorda la famosa canzone di Celentano “Il ragazzo della via Gluck”.
“Per me il co-housing ha una forte valenza sociale di prevenzione del disagio che può sorgere in una famiglia chiusa in se stessa. Il mio sogno – dice Alida - è di creare una struttura che abbia molto verde attorno in cui i bambini possano crescere liberi di giocare all’aria aperta, di praticare la bellezza del gioco spontaneo che è la base per sperimentare ciò che sarai da adulto. I miei figli, ad esempio, hanno avuto un’infanzia bellissima perché hanno potuto giocare liberi”. Quanti bambini, oggi, possono giocare liberi e sperimentare gli spazi urbani? Nessuno. La città è cambiata, è sempre più a misura di auto e per nulla a misura di bambino. Eppure, calibrare una città sui più deboli vorrebbe dire concepire una città più accogliente per tutti. I tempi e gli spazi di gioco nelle città, invece, sono sempre più affidati a strutture specialistiche: la palestra, la squadra di calcio, la piscina, nella migliore delle ipotesi le parrocchie, i centri estivi e chi più ne ha più ne metta. Nulla è lasciato al caso e alla spontaneità, tutto è incasellato in regole, orari e percorsi predefiniti. Ovviamente da percorrere in auto, prolungamento della nostra abitazione blindata e chiusa al mondo esterno.
A parlare del co-housing mi ritrovo, unico uomo, intorno ad un tavolo con quattro donne: oltre ad Alida, Giuliana, Roberta e Valeria. Non è un caso. È il segno del fatto che le donne sono più portate alle relazioni, alla socialità, a condividere i problemi della vita quotidiana, a mettersi in gioco anche dal punto di vista emotivo. Perché è chiaro che il co-housing non è solo una soluzione razionale all’abitare, ma implica anche una disponibilità ad aprirsi agli altri. “Un co-housing sociale che accolga una donna sola con figli può essere una soluzione per affrontare le difficoltà della vita”, dice Roberta.
Come spesso capita, anche per il co-housing il mercato tende a metabolizzare tutto, ad inglobare in se i nuovi bisogni e a restituirli sotto l’aurea di un nuovo business che fa tendenza. E così cominciano a spuntare in giro per l’Italia agenzie immobiliari specializzate nel co-housing. Acquisiscono aree adatte allo scopo per riproporle sul mercato.
“Per noi il co-housing non è una nuova moda, né la ricerca di abitazioni esclusive. Per noi è un diverso e nuovo modo di pensare le relazioni di mutuo aiuto, giusto il contrario della logica di mercato”, ci tiene a ribadire Alida Nepa. E del resto il prezzo proposto più sopra, non a caso è fuori dai prezzi del mercato speculativo attuale.
Come contrastare, allora, la pervasività del mercato? Una possibile risposta prova a darla la prof.ssa Leder. “E’ importante che cresca la domanda dal basso da parte dei cittadini per far sì che l’azione pubblica abbia un valore simbolico, un’azione sociale a 360 gradi. È importante piantare delle bandierine sul territorio di una città”.
Giuseppe Fornaro

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